La sinistra e le nuove sfide dell' economia

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    discussione iniziata Sab, 09/06/2014

    ' Amico Edera Rossa ci ha segnalato sulla pagina di repubblica e Progresso il libro di Thomas Piketty "il Capitale del XXI secolo"

    Facciamo seguire la recensione apparsa su l' espresso di Uri Dadush , esponente del Thin Tank progresssita Carnegie Endowment for International Peace e docente in varie università tra cui Haward e la Hebrew University di Gerusalemme

    Come è possibile che un libro di 700 pagine, pieno di cifre, note di chiusura e qualche equazione qui e là diventi negli Stati Uniti un best seller, più popolare su Amazon.com dei gialli o delle storie di spionaggio? Parte della risposta è che “Capital in the 21st century” (Capitale nel XXI secolo) del francese Thomas Piketty è un capolavoro di analisi storica ed economica, un libro che, per ambizione e originalità, può mirare a diventare un classico dell’economia.

    Inoltre, il tema – la disuguaglianza di reddito – è un tema centrale in questo momento nella politica americana. Il libro è istruttivo ma intrattiene. Poggia su dati storici assemblati con cura e tratti non solo dalla ricerca di Simon Kuznets e Milton Friedman, ma anche dalle vicissitudini delle élite nel XIX secolo in Inghilterra e Francia, così come descritte nei romanzi di Jane Austen e di Honoré de Balzac.

    I messaggi centrali di Piketty sono semplici: guadagnando una parte della popolazione almeno 30 o 40 volte il salario medio e possedendo essa una ricchezza - la combinazione di proprietà immobiliari e attività finanziarie - ancora più distante da quella media, la disuguaglianza di reddito tra le élite e il resto delle persone è da considerarsi storicamente molto alta.
    Mentre il 10 per cento più ricco possiede il 60 per cento della ricchezza nazionale, e talvolta addirittura il 90 per cento, il resto della popolazione non possiede praticamente nulla. Il punto è che, almeno negli ultimi due secoli - da quando si dispone di dati affidabili, prima in Francia e poi in Inghilterra, da poco dopo la rivoluzione francese - il tasso di rendimento della ricchezza, che è del 4-5 per cento, ha superato con un ampio margine il tasso di crescita dei redditi nazionali, che si attesta attorno al 2 per cento, con l’eccezione del periodo delle Due guerre e della Depressione tra il 1914 e il 1945.

    Poiché i ricchi possono vivere molto bene senza consumare quantità significative della propria ricchezza, ne consegue che la quota del reddito nazionale rappresentata dalla ricchezza e dal reddito che essa genera tenderà ad aumentare. Piketty dimostra che oggi il rapporto tra ricchezza e reddito, che è di circa 6 volte, non è lontano dai record toccati nel 1920, e che il suo crescente peso implica che i redditi siano destinati a diventare in futuro sempre più disuguali.

    A complicare le cose, la parte della ricchezza ereditata supera quella guadagnata. Secondo Piketty, una crescente e sempre più estrema disparità di reddito sarebbe incompatibile con la democrazia e il punto di rottura politico potrebbe essere raggiunto presto, com’è accaduto nel passato durante i periodi di estrema disparità.

    Piketty sostiene che la risposta politica più efficace sia l’imposizione di una tassa progressiva sul patrimonio e che tale tassa dovrebbe essere applicata a livello globale per evitare l’evasione. Egli riconosce la sua proposta come utopica, ma vi insiste ritenendola necessaria e notando che, peraltro, il momento potrebbe essere arrivato, forse a partire da un accordo tra i Paesi europei.

    La tesi di Piketty è accuratamente documentata anche negli argomenti più suscettibili di essere confutati ed è pertanto difficile da attaccare, tranne ovviamente per chi opina senza prendersi il disturbo di leggere attentamente il libro, come purtroppo accade spesso. Quando i trattamenti sono così ampi, è più facile che un dato numero di fatti o di ipotesi sia messo in discussione (lo ha fatto un giornalista del “Financial Times” senza molto successo), ma credo che le principali conclusioni di Piketty saranno difficilmente smentite.

    Il principale punto critico delle sue argomentazioni è che il rendimento sul capitale potrebbe non restare superiore al tasso di crescita delle economie nazionali per sempre, soprattutto se si espanderà, come egli afferma, il volume del capitale. È una possibilità che Piketty riconosce, ma che considera una prospettiva remota. Come osservatore dei trend economici, personalmente ritengo poco probabile che nell’era del capitale mobile, dei grandi passi avanti dell’information technology e dell’entrata nel commercio mondiale di lavoratori dei Paesi in via di sviluppo, il rendimento sul capitale scenda nel breve periodo.

    Così, se, da una parte, si può essere in disaccordo con le ricette politiche di Piketty, dall’altra, la sua analisi è probabilmente corretta e ciò passa ai politici di ogni colore una gigantesca patata bollente.

    http://espresso.repubblica.it/senza-fronti...2014/06/11/news...

    questa invece la recensione del premio nobel Krugman

    In un primo momento uno lo prende come uno scherzo di cattivo gusto: i liberal americani si sono innamorati di un intellettuale francese che cita Marx, parla di Balzac e propone una tassa mondiale sulla ricchezza. Se Thomas Piketty non stesse davvero girando le librerie degli Stati Uniti tra una presentazione e l’altra del suo ultimo libro, potreste pensare che un personaggio del genere sia saltato fuori da una delle invettive sbraitanti di Rush Limbaugh.

    Ma no, è un personaggio vero. Il Capitale nel ventunesimo secolo, il tomo di 685 pagine di Piketty sulla storia e sul futuro della disuguaglianza ha inaspettatamente raggiunto la prima posizione nella classifica di vendita di Amazon. E il riferimento a Marx nel titolo, è solo il primo.

    Il New York Magazine lo ha chiamato un “economista rockstar” e Piketty ha riscosso un certo successo anche a Washington. Mentre si trovava in città per una tappa del suo tour promozionale, Piketty ha trovato un momento per incontrarsi con Jack Lew, ministro dell’Economia, con il Council of Economics Adviser e con il Fondo Monetario Internazionale. Del libro di Piketty ne hanno parlato anche i più importanti e insospettabili media del mondo e questa è stata probabilmente la svolta.

    Forse il successo di questo libro non dovrebbe sorprenderci. Piketty, un professore alla Paris School of Economics, è stato probabilmente il più influente teorico della disuguaglianza degli ultimi dieci o quindici anni. Dobbiamo ringraziare lui e i suoi colleghi Emmanuel Saez di Berkeley e Anthony Atkinson di Oxford per le ricerche cha hanno definito la nascita dell’idea dell’1 per cento, l’élite ricca in America e in Europa. Adesso, con questo libro, Piketty ha fornito ai liberal americani un quadro teorico coerente che giustifica il disagio che probabilmente già provavano nei confronti del divario della ricchezza.

    In tanti hanno già riassunto il contenuto del Capitale, ma ecco una breve ripassata. Se i precedenti lavori di Piketty si erano concentrati sul profitto – quello che lavoratori e investitori guadagnano – il nuovo libro si concentra sulla ricchezza: quello che possediamo. Usando dati che vanno indietro fino al XVIII secolo, Piketty ha argomentato che quando in un paese la crescita economica rallenta, il profitto generato dalla ricchezza, piuttosto che quello generato dal lavoro, cresce esponenzialmente e aumenta la disuguaglianza. Questo è perché la rendita prodotta dalla ricchezza accumulata ha un valore medio costante di circa il 5 per cento. Se la crescita economica scende sotto quel valore, i ricchi diventano più ricchi. Nel corso del tempo, poi, quelli che ereditano grandi fortune si costruiscono posizioni dominanti nelle relazioni economiche e l’unica cosa che possiamo fare per reagire a questa situazione è votare per delle politiche di redistribuzione. (Qui, infatti, è dove Piketty propone la sua idea di una tassa mondiale sulla ricchezza, anche se forse gli americani, per ora, sarebbero felici anche solo con un aumento delle tassazione sulla rendita finanziaria).

    Alcuni hanno sostenuto che non dovremmo essere nervosi quando parliamo di disuguaglianza perché le élite globali sono sono formate da gente che ha lavorato e da ricchi che la loro ricchezza se la sono guadagnata: hanno meritato i loro spropositati stipendi con le loro eccellenti abilità tecniche e il loro talento negli affari. A questa posizione, il libro di Piketty offre una semplice ma netta risposta: sarà anche vero che i ricchi di oggi hanno lavorato per la loro ricchezza, ma quelli di domani non avranno il bisogno di farlo. Già oggi, sostiene Piketty, i ricchi guadagnano più dalla rendita della loro ricchezza che dal loro lavoro. Proprio come gli spietati e spregiudicati uomini d’affari della fine dell’Ottocento avevano lasciato spazio a quella generazione di ricchi ereditieri magistralmente descritta nel Grande Gatsby, i CEO e gli amministratori di hedge found di oggi produrranno una generazione che, messa semplicemente, avrà vinto alla lotteria della nascita.

    Nella sua positiva recensione del Capitale sulla New York Review of Books, Paul Krugman, ha scritto che «Piketty ci offre una teoria unificata della diseguaglianza, che integra in un’unica cornice, crescita economica, distribuzione dei guadagni tra lavoro e ricchezza, e distribuzione della ricchezza e del guadagno tra individui. Questa è la ragione della grande attenzione generata dal libro. I conservatori hanno da sempre avuto una teoria piuttosto semplice e intuitiva per spiegare le loro scelte economiche: il libero mercato sistemerà tutto. Adesso i liberal, invece che parlare fumosamente della loro lotta per la classe media, hanno un appiglio per sostenere che stanno lottando contro l’altrimenti inevitabile ascesa dei nuovi Hilton.

    Il Capitale cambierà il dibattito politico anche in un altro aspetto, meno evidente, nella misura in cui si concentra sulla ricchezza e non sul guadagno. Le discussioni sul guadagno possono essere delle sabbie mobili, in parte perché agli americani non piace l’invidia verso uno stipendio meritato con il duro lavoro e in parte perché è difficile decidere cosa dovrebbe essere considerato guadagno. Se si cominciano a contare le spese per le assicurazioni mediche e i sussidi per fare la spesa, come alcuni fanno, il famoso 1 per cento non domina più così nettamente.

    Ma con la ricchezza è un’altra storia. Agli americani non piace l’idea degli aristocratici, c’è un motivo se quando un politico si candida alle elezioni cerca di farsi fotografare nella fattoria con la sua famiglia piuttosto che in un costoso resort caraibico. Inoltre, con i buoni spesa del governo e con l’assicurazione sanitaria non si possono mettere via risparmi e quindi solo la ricchezza accumulata, che include quello che ci resta in banca tolte le spese per vivere, è un buon indicatore di chi vince nel lungo periodo.

    Questo è quello su cui dovremmo lottare. Che la teoria unificata di Piketty sia corretta o meno, quello che conta è che il suo lavoro ha spostato il dibattito nella giusta direzione.

    www.ilpost.it/2014/04/23/capital-in...thomas-piketty/


    Il precariato negli USA va a gettoni del telefono

    Sul numero 1074 (24 ottobre 2014) di Internazionale un interessante articolo del New Yorker sulle lotte sindacali dei dipendenti dei Fast Food e delle grandi catene di distribuzione negli USA . Si perchè nella delle libertà individuali i più grandi datori privati (Walmart e Mc Donald) hanno creato si milioni di posti di lavoro , ma sottopagati , part time , con turni sempre mutevoli e forniti all' ultimo momento. :



    Quasi tutti i lavoratori (di Mc Donald) prendono il minimo salariale, che a New York è di 8 dollari all’ora (poco più di 6 euro), senza benefit aggiuntivi. .. Ad aggravare il problema della retribuzione bassa in una città dove il costo della vita è altissimo, c’è il fatto che quasi tutti lavorano part-time. E nessuno sa con certezza quando lavorerà nella settimana successiva



    I giovani e meno giovani dipendenti per difendersi non hanno scelto , come sostiene Ichino, la strada di sbattere orgogliosamente la porta perchè un sistema di collocamento privato permette di trovare un altro impiego . Ma hanno scelto il vecchio sistema , da gettone telefonico di aderire ad un sindacato , affrontando il pericolo del licenziamento (negli USA non c'è l' art 18)



    Il Service employees international union (Seiu), il secondo sindacato più grande degli Stati Uniti, sta iniziando in silenzio la campagna di reclutamento nei fast food.

    Tutto è cominciato con lo sciopero del 29 novembre 2012. Circa duecento lavoratori provenienti da una quarantina di fast food di New York si sono dati appuntamento all’alba davanti al McDonald’s di Madison

    avenue. Gridavano “Hey, hey, what do you say, we demand fair pay” (‘Ehi, ehi, cosa ne dite, pretendiamo una paga giusta’).....Ci sono stati comizi, sit-in e una marcia sino a Times square.

    Il New York Times ha parlato della “più grande ondata di iniziative dei lavoratori nella storia dell’industria del fast food”.........La protesta si è allargata sino agli stati del Midwest: centinaia di lavoratori dei fast

    food sono scesi in piazza a Chicago, St. Louis, Kansas City e Detroit. Nell’estate del 2013 i lavoratori di sessanta città degli Stati Uniti, anche nel sud tradizionalmente ostile ai sindacati, hanno organizzato giornate di scioperi e cortei con un messaggio comune: 15 dollari e un sindacato. A dicembre le

    città coinvolte erano diventate più di cento.

    A quel punto anche la politica ha cominciato a interessarsene.....Di fronte all’esplosione della protesta,

    le grandi catene di fast food sono apparse impacciate e spiazzate. La tradizionale difesa

    d’uicio delle loro paghe da fame – cioè che i dipendenti sono in maggioranza giovani, lavorano part-time e vogliono solo guadagnarsi i soldi per la benzina – ormai non funziona più. Quasi tutti i dipendenti sono adulti: l’età media è di 28 anni. Più di un quarto di loro ha figli. Da quando è cominciata la recessione economica, nel 2009, spesso i cosiddetti McJobs sono gli unici posti di lavoro disponibili





    L'articolo continua raccontando qualche cedimento di alcune catene , qualche città ha imposto salari minimi ,e come si dice , la lotta continua .

    Quello che è interessante è una notizia, come è noto da noi si propaganda la possibilità di sostituire le tutela dentro la azienda con una serie di provvidenze di welfare che aiuti il dipendente di fronte a scelte unilaterale del datore di lavoro . Negli stati uniti è così

    Queste le conseguenze



    Lo studio congiunto delle università di Berkeley e dell’Illinois, commissionato da Fast food forward, (un organizzazione sindacale dei lavoratori dei fast food) ha rivelato che i lavoratori americani dei fast food ricevono quasi sette miliardi di dollari all’anno in assistenza statale.

    Secondo gli attivisti si tratta di una sovvenzione diretta all’industria del fast food.



    Secondo gli attvisti infatti le grandi catene possono tenere cosi bassi salari e cosi disarticolanti condizioni di lavoro perchè i lavoratori stessi sono aiutati dal welfare pubblico



    Significa, in pratica, che i contribuenti finanziano i grandi manager del settore. Secondo Demos, un centro studi progressista, tra il 2000 e il 2013 i guadagni dei dirigenti del settore del fast food, a valore costante

    del dollaro, sono quadruplicati. Oggi, in media, i grandi manager si mettono in tasca quasi 24 milioni di dollari all’anno.

    L'apartheid di Matteo

    "Il presidente del consiglio dei ministri si preoccupa che vi siano cittadini di serie A) e serie B) :

    22.446.000 lavoratori, tanti ne stimava a fine luglio il rapporto trimestrale dell’Istat, i «garantiti», quelli che stanno in «serie A» insomma, sono meno della metà. Tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale parliamo di 14,56 milioni di lavoratori (di cui 11,98 milioni a tempo pieno). Ma di questi almeno 4 milioni e 108mila, il 34,52% dei lavoratori full time, lavora in imprese con meno di 15 dipendenti e quindi come tali vanno classificati di B perchè non beneficiano delle tutele legate all’art. 18. Immaginando una quota analoga anche tra i part-time alla fine in prima classe ne restano «appena» 9 milioni e 491mila.

    Tutto il resto è seconda classe, effetto «apartheid», come lo chiama Renzi. Serie B, se non peggio. Dai 3 milioni e 144mila disoccupati (compresi gli 891mila giovani) ai 3,5 milioni di inattivi (su un totale di 14,3) che vorrebbero/potrebbero anche lavorare ma non trovano o non cercano più.





    Per risolvere il problema di questo apartheid si propone di "rimodulare" le tutele contro i licenziamenti illegittimi. Sia chiaro il contratto a tutele crescenti può essere una buona ipotesi , l'approccio che ripropone la contrapposizioni fra ultimi e punultimi della scala sociale , fa però temere sviluppi simili a quelli che si è visto per le pensioni , indicate come la colpevole causa delle scarse risorse degli altri istituti di welfare, sono state saccheggiate senza che ne beneficiassero altri struemnti di poltica sociale , ma per coprire voragini di bilancio che qualcuno aveva proposto di coprire con una patrimoniale .

    A questo proposito ci permettiamo di suggerire al presidente del consiglio anche un altro apartheid , tra tutti quei 22.000.000 di lavoratori e i 203.200 italiani con ricchezze finanziare sopra il milione di dollari (erano 175.800 del 2012). , negli anni della massima crisi , in cui a tutti ( si fa per dire) sono stati richiesti sacrifici il numero dei “milionari “italiani è incrementato di una percentuale maggiore che nel resto d' Europa. Forse anche questo è un tipo di apartheid , fra chi ha sofferto fino all' inverosimile la crisi, e chi si è arricchito , che è da considerare.

    Ricordiamo infine che in sudafrica l'aparthied è terminato concedendo ai neri , ai meticci e agli indiani gli stessi diritti dei bianchi . Non si è pensato di realizzare l'uguaglianza trattando tutti da "negri".

    www.lastampa.it/2014/09/17/italia/p...nKI/pagina.html

    www.adnkronos.com/soldi/economia/20...html?refresh_ce
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    NicolaR: Economisti e politici


    Prima di arrivare al nucleo centrale del mio intervento, permettetemi alcune brevissime e succinte analisi.

    All'epoca dei miei studi universitari di economia politica - ormai circa 4 decenni fa - imparai da testi americani che gli economisti elaboravano le loro teorie (che poi gli fruttavano magari il Nobel) dall'analisi minuziosa e articolata dei comportamenti complessivi dei grandi capitani d'impresa o delle grandi società di capitali.

    Erano quindi due gli elementi essenziali del loro operare: osservavano a tutto campo i comportamenti dei PRODUTTORI; ed elaboravano le loro teorie solo DOPO che i comportamenti dei produttori avevano dispiegato i loro effetti.

    Oggi mi sembra che accada l'opposto: gli economisti non guardano più i produttori ma quasi esclusivamente i prodotti finanziari e i meccanismi per moltiplicare i guadagni da capitale; e inoltre elaborano le loro teorie sulla creazione di leggi e meccanismi che permettano guadagni immediati (calcolati ormai su base trimestrale se non mensile) delle società finanziarie globali.

    Lo sviluppo tecnologico dell'infinitamente piccolo ha permesso/costretto di scaricare il costo unitario di prodotto quasi esclusivamente sui salari - talchè la produzione viene spostata nei paesi a minor basso costo di manodopera.

    La conseguenza è stata che i Paesi a vocazione tecnologica innovativa (essenzialmente gli USA e pochi altri) hanno mantenuto un alto livello di reddito derivante dall'invenzione incessante di tecnologia - mentre le Nazioni "intermedie" (come l'Italia e in genere l'Europa e non solo) si sono ritrovate col sedere per terra: con eccessivi costi unitari per prodotto e in assenza di capacità tecnologica e innovativa adeguata, tale da far recuperare il gap con i bassi salari delle Nazioni con minor costo del lavoro.

    Lo spostamento dell'asse economico dai produttori ai possessori dei titoli finanziari ha determinato due conseguenze abnormi:
    a) il drenaggio della ricchezza dalla massa della popolazione ai possessori di titoli finanziari;
    b) una massa enorme di capitali che non trova alcuna corrispondenza con l'economia reale e quindi col valore della ricchezza reale.
    Questa ultima condizione ha determinato la crisi - che ormai possiamo definire strutturale - che attanaglia l'Europa dal 2009 E CHE NESSUN ECONOMISTA HA AVUTO LA CAPACITA' NE' DI PREVEDERE NE' DI IMMAGINARE. Mentre lo spostamento della ricchezza dai produttori ai possessori di titoli finanziari ha determinato l'esplosione dei rigurgiti razzisti/fascisti/ribellisti ormai in tutta europa.

    Se la situazione è quella sopra tratteggiata per sommi capi, alcune delle domande che io mi pongo e sottopongo anche alla vostra attenzione sono:
    a) come mai la categoria degli economisti (ma non solo: vedansi le ipotesi di PIL a +0,8% che tutti gli organismi internazionali pronosticavano per quest'anno all'Italia e alla UE) E' STATA DEL TUTTO INCAPACE di avere anche il lontano sentore della crisi da "carta moneta virtuale" che avrebbe attanagliato le economie avanzate?
    b) chi è stato INCAPACE di fare prevedere cose così eclatanti, ha la credibilità necessaria per imporre politiche economiche agli Stati per accordargli i prestiti di cui abbisognano per non fallire?
    c) le misure che predicano e impongono di adottare (riduzione del deficit, diminuzione delle spese statali e quindi dei servizi, liberalizzazione del mercato del lavoro, riduzione dei salari ecc) sono davvero LA STRADA UNICA per uscire dalla crisi?

    Ma altre e forse ben più corpose domande derivano da quelle di cui sopra:
    aa) è concepibile adottare misure economiche considerando la Nazione (le persone che vi abitano, la loro cultura, esigenze, storia ecc) esclusivamente come destinataria neutra di decisioni che invece ne modificano le prospettive di vita dei suoi abitanti?
    bb) è sicuro che non vi siano altre misure utili ad uscire dalla crisi che non siano solo quelle del mero pareggio contabile imposto con tutti i mezzi e a tutti i costi?
    cc) è possibile avere un governo dell'economia che tenga conto non solo del guadagno del capitale (spesso solo virtuale) ma anche del "guadagno" in qualità di vita degli Uomini e Donne che compongono una Nazione?
    dd) e poi la domanda finale: non sarebbe il caso che la Politica ritrovi il suo ruolo e sia essa a guidare le sorti delle Nazioni - e non gli economisti che hanno come unico obiettivo il guadagno immediato dei capitali che amministrano?

    Nicola

    Edited by lucrezio52 - 19/5/2019, 16:55
     
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    S. Biasco: ripensare il capitalismo
    Inserito da Redazione1 il Lun, 01/28/2013 - 23:33.

    PER UNA SINISTRA NON PIU' SUPINA AL LIBERISMO : Continua l'opera contro l'acquiescenza della sinistra europea al pensiero unico liberista di Salvatore Biasco professore di Economia internazionale alla Sapienza,deputato Pds tra il 1996 e il 2001, dopo "per una sinistra pensante " del 2009 esce ora “Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra”.

    Segnaliamo qui sotto la recensione del corriere della sera e quella di Lanfranco Turci sul Micromega dal quale traiamo questa sintesi :"Il libro articolato in cinque capitoli esamina in primo luogo i cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal nuovo capitalismo finanziario nei rapporti fra economia e democrazia, poi le caratteristiche della formazione e della diffusione dell’egemonia culturale di questo nuovo capitalismo. Dall’accademia, con la vittoria del monetarismo e della teoria delle aspettative razionali, fino ai media, ai partiti politici e al senso comune delle persone, orientato verso il consumismo e l’individualismo. Il terzo capitolo analizza l’impatto culturale neoliberale sull’apparato di pensiero dei partiti socialisti in Europa ed esplora le vie e i segnali di una possibile reazione. Il quarto esamina e soprattutto propone la scelte per una “riforma del capitalismo”, scelte che dovrebbero ispirare la sinistra, articolandole nei vari campi della politica europea. L’ultimo capitolo prova a tradurre in italiano i cambiamenti politico culturali intervenuti nella sinistra europea sotto l’influenza neoliberale e propone l’interrogativo di “quanto socialismo ha bisogno la sinistra italiana”. Il libro ha il pregio della chiarezza e della sinteticità, corredato di poche note essenziali, si presta ad una agevole lettura."

    http://archiviostorico.corriere.it/2013/ge...b39d21e79.shtml

    http://temi.repubblica.it/micromega-online...-capitalismo-2/
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    Il partito dei padroni

    Dom, 08/08/2010 - 16:45

    Astone confindustria crisi democrazia



    Un saggio di denuncia non è esattamente una lettura estiva , ma a chi vuole alternare a gialli e fantascienza qualcosa di più impegnativo, consiglieremmo “il partito dei padroni” di Filippo Astone , saggista giornalista del periodico Mondo.

    Il libro, che esplicitamente trae ispirazione dalla denuncia della classe imprenditoriale da parte di Ernesto Rossi in “i Padroni del vapore” (1955), è una pesante critica a quello che viene definito “uno dei più potenti partiti italiani”,.

    Astone ne descrive la complessità burocratica e la capacità di influire sulla vita politica e sociale italiana , sino a considerare la presidenza di Confindustria “la quinta carica dello stato” , tra l' altro eletta con metodi molto bizantini, all' insegna della cooptazione, tanto da scontentare fortemente anche esponenti imprenditoriali, di successo, ma estranei alla “nomenclatura”

    Una struttura che parla di modernità, dice Astone, ma è caparbiamente attaccata a pratiche di un capitalismo che si penserebbe superato.

    Non a caso Astone inizia il suo libro con un agghiacciante racconto di una impresa di Perugia che con il sostegno della locale confindustria e il silenzio della struttura nazionale ha chiesto alle famiglie di quattro operai morti bruciati vivi e di uno divenuto invalido totale un risarcimento di 35 milioni di euro considerandoli responsabili dell' incidente che oltre alle morti provocò danni anche agli impianti .

    La Confindustria è descritta come una struttura mastodontica e costosa : 506 milioni di euro versati nel 2008 dalle imprese associate. A questo proposito l' autore stranamente non sottolinea che , come per tutte le associazioni imprenditoriali, tali contributi sono totalmente deducibili e se questo è comprensibile per le attività di servizio che le associazioni svolgono per gli aderenti , è meno chiaro per la quota destinata alle attività di lobbying , creando una evidente disparità con i sindacati dei lavoratori , per i quali invece è stata fortemente stigmatizzata la prassi dei distacchi di dipendenti pubblici.

    Astone invece evidenzia un incongruità , per così dire, parallela a questa : tra il 93 e il 94 le imprese pubbliche prima aderenti all' intersind (ENI, ENEL, Poste, Ferrovie...) sono confluite in confindustria ovviamente portando una rilevante quota di contributi alle strutture locali e nazionali.

    E qui avremmo una prima riflessione sul fatto che risorse pubbliche servano ad alimentare una attività politica atta, legittimamente, ad influenzare le istituzioni, ma in oltre al momento della confluenza fu permesso che - in deroga allo statuto confindustriale che prevede una proporzione fra contributi versati e voti assembleari – i voti delle imprese pubbliche in qualsiasi assemblea non potessero superare complessivamente il 10% .

    Il saggio comunque sottolinea come tutto ciò abbia potentemente incrementato l' intreccio fra carriera in confindustria, carriera politica ( particolarmente nel centro destra, ma anche nel PD), responsabilità retribuite nelle imprese pubbliche .

    Vengono poi descritte vicende sia di singoli imprenditori da Paolo Scaroni, ad Emma Marcegaglia a Guidalberto e Federica Guidi, che di avventure imprenditoriali come l' Alitalia o l' Expo che potremo approfondire singolarmente.





    aggiungiamo alcune recensioni professionali

    www.gliitaliani.it/2010/07/il-parti...-confindustria/

    www.illibraio.it/gw/producer/produc...adroni/home.htm

    www.radioradicale.it/scheda/304348/...ndano-in-italia


    I PROCLAMI POLITICI DEI GRANDI IMPRENDITORI: COSA NE PENSAVA ERNESTO ROSSI 50 ANNI FA
    Inviato da Redazione1 il Dom, 10/09/2011 - 22:13



    Ernesto Rossi nel 1955 pubblicava “ I padroni del vapore” spietata critica alla classe dirigente imprenditoriale italiana. Riproduciamo un significativo brano , ognuno ne valuterà l'attualità



    Nei loro scritti non si trova mai il più lontano accenno agli argomenti che maggiormente ci interessano: quanto era stimata la loro fortuna e di quale beni era effettivamente costituita; come hanno fatto a mettere insieme tanti miliardi in un Paese in cui, anche dopo il miracolo economico degli ultimi anni, almeno un quinto della popolazione vive sommerso al di sotto della linea di miseria ; in quali forme si manifestava la loro influenza sul parlamento, sul governo, sui ministeri, sulle direzioni dei partiti e dei sindacati operai ; sui consigli di amministrazione della grandi società; quali intese monopolistiche hanno concluso fra di loro e con i gruppi monopolistici stranieri, e quali convenzioni per le forniture con le aziende si stato; quali atteggiamenti hanno tenuto nei momentio più critici della vita pubblica nazionale ; quanto hanno pagato e a chi hanno pagato per ottenere... i crediti di favore , i sussidi alla produzione , i prestiti garanti dal tesoro ;le assegnazioni di materie prime sottocosto; i salvataggi delle imprese dissestate, le commesse a prezzi maggiorati, e tutti gli altri interventi statali attraverso i quali hanno potuto levar tasse e balzelli nei punti di passaggio obbligato o sono stati esentati dagli obblighi che erano stati imposta a tutti gli altri cittadini.



    Citazione tratta da "Il partito dei padroni " di Filippo Astone pag 34

    Edited by lucrezio52 - 31/3/2019, 20:09
     
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    Ken Loach: «La sinistra riparta dalle esigenze dei lavoratori»






    Il regista Ken Loach noto per le sue idee radicali in unaq intervista a lettera 43 fa un impietosa analisi della crisi della sinistra in occidente , riportiamo quo alcuni brani particolarmente significativi , ma consigliamo la lettura dell' intero articolo
    Da notare come Loach sposi il concetto mazziniano di capitale e lavoro nelle stesse mani , ma incredibilmente , nsieme alla intervistatrice attribuendolo a Marx

    «Intanto capiamoci: il cosiddetto centrosinistra di sinistra aveva poco: era centrodestra. In Italia, come in Germania e in Francia, è fallito il progetto stesso della socialdemocrazia della Terza via, quella di Blair e Brown».
    D. Perché?
    R. Perché hanno supportato un progetto neoliberista. Sono stati appena un po’ meno aggressivi negli obiettivi dei neoliberisti puri, hanno mantenuto qualche protezione per i lavoratori, ma poca roba. Di base hanno criticato i lavoratori quando scioperavano per mantenere le proprie condizioni salariali e hanno chiuso ai sindacati. Hanno accettato l’idea che gli interessi delle multinazionali venissero prima di qualsiasi altra cosa, il che comporta condizioni pessime per i lavoratori e la privatizzazione dei servizi pubblici.

    D. E poi?
    R. Le condizioni di vita sono peggiorate e per la maggioranza delle persone è stato un disastro: i socialdemocratici, la sinistra, sono stati associati con quel disastro, la sinistra lo è stata. E nessuno è stato in grado di capire la rabbia della gente. Un fallimento totale, di cui l’Unione europea è complice
    D. In realtà molta di quella rabbia è stata capita, e sfruttata, da altri.
    R. Certo, la destra populista ha dato le sue spiegazioni: è colpa degli immigrati, è colpa delle corporation, venite da noi, noi vi ascoltiamo. Le loro semplici risposte sono diventate molto popolari. E ci ritroviamo con un’Europa in cui si contrappongono ormai solo la vecchia destra cristiana e l’estrema destra. E la colpa è dei socialdemocratici.

    D. Però in Gran Bretagna in Labour va per tutt’altra strada.
    R. Noi siamo l’eccezione. Da noi, per via di un caso totalmente fortuito, quasi un incidente di percorso, il partito di sinistra ha eletto un leader che è molto più a sinistra di Blair. E la sua popolarità è diventata enorme: le iscrizioni al partito laburista son cresciute da 300 a 600 mila sotto Corbyn, un numero enorme.

    D. Promettendo cosa?
    R. Il loro programma prevede di fermare le privatizzazioni e di rafforzare i sindacati. C’è un piano di investimenti pubblici per riportare nelle mani dello Stato il servizio sanitario e l’energia. Non è una sinistra marxista, ma è una reale sinistra socialdemocratica. Personalmente, porterei ancora più in là molti dei loro progetti, ma è un inizio di ricostruzione della sinistra.
    D. Molti lo bollano come eccessivamente radicale.
    R. Onestamente, non vale nemmeno la pena di commentare, tanto è una critica lontana dal reale. Propaganda pura.


    D. Lei parla di sinistra, ma c’è chi dice che sinistra e destra non esistano più, che le ideologie sono morte. Lo dice per esempio il M5S, in Italia.
    R. Che sciocchezza, le ideologie non possono sparire, sarebbe come abolire la scienza: non ha senso. L’ideologia corrisponde a una certa visione della società, a come vorresti che fosse organizzata: se non ne hai una non puoi fare politica, perché la politica si basa su questo.

    D. Quindi qual è l’ideologia di chi dice di non credere alle ideologie?
    R. Se dici che non segui un’ideologia, significa solo che non ne riconosci una e ti adatti a quella corrente, per cui il business è più importante di tutto il resto e la libertà è essenzialmente libertà di sfruttamento. Invece c’è un altro tipo di economia basata sui beni comuni e sul possesso comune, l’unico modo in cui si può assicurare dignità a tutti e che consente peraltro anche di programmare l’uso delle risorse ambientali.

    D. La sinistra è presa tra due poli. Uno è la convinzione che sia fatta ormai solo di élite, per le élite. L’altra è che le posizioni più radicali siano superate, incongruenti con la modernità.
    R. Bisogna partire da principi semplici, fondamentali. L’economia oggi gira intorno a chi possiede e guida le multinazionali: la faccia visibile del business, impegnata a macinare denaro. Gli altri sono i lavoratori, che cercano di aggrapparsi ai loro diritti. Di base, la destra sta col grande business, la sinistra con la working class, con i lavoratori. Il resto è propaganda, messa in circolo da chi vuole che le cose restino come sono.

    D. La working class è cambiata molto, però. Gli operai oggi sono frequentemente più protetti dei giornalisti freelance, o delle partite iva, delle cosiddette “imprese individuali”.
    R. Non credo che la working class sia cambiata poi così tanto. I freelance o le partite Iva sono lavoratori, no? Possono avere più autonomia, ma sempre lavoratori sono. Di nuovo, non facciamoci distrarre dalla propaganda. Il principio è semplice: se sei a disposizione del tuo lavoro, sei parte della working class. E la sinistra deve lottare per i tuoi interessi.

    D. Come?
    R. C’è bisogno di stipendi certi, di lavori sicuri, di assistenza sanitaria, di scuole per i ragazzi, di pensioni per quando si invecchia.

    D. E come lo si ottiene?
    R. Per offrire lavoro sicuro, non ci si può affidare al Big Business, ai grandi colossi: perché il loro interesse è soltanto pagare meno i lavoratori, quindi delocalizzare. Per creare un nuovo tipo di lavoro, credo che oggi si possa solo spingere sulle cooperative: i mezzi di produzione devono appartenere ai lavoratori.

    D. Si ritorna a Marx!
    R. Certo. L’essenza del socialismo: il lavoratore possiede i mezzi di produzione e l’economia viene pianificata. Il che oggi è particolarmente importante, perché l’ambiente viene distrutto quotidianamente, con conseguenze catastrofiche.

    D. La prima mossa pratica quale sarebbe?
    R. Si parte da quello che serve alle persone, non da quello che il grande business concede di avere. Si invertono le priorità: si parte dai bisogni essenziali.

    D.Che rapporto ha la sinistra che immagina con l’Unione europea?
    R. Serve solidarietà in tutta l’Unione europea: i lavoratori dovrebbero unirsi, sostenersi reciprocamente contro lo sfruttamento. Ma questa Ue non è basata sulla solidarietà, è basata sui profitti consentiti alle grandi aziende, sul mercato libero, sulla libera circolazione dei capitali. Insomma: l’Unione europea è necessaria, ma deve essere molto diversa.


    ...............

    D. La sinistra che andrebbe ricostruita come si raffronta invece con le nuove tecnologie, dai robot all’intelligenza virtuale?
    R. La tecnologia in sé è neutrale, non è né buona né cattiva...

    D. E se le fabbriche usano i robot al posto degli uomini?
    R. Capiamoci: qualsiasi nuova tecnologia può essere usata bene o male, è una scelta. Ma se la lasciamo ai proprietari delle aziende, loro la useranno di sicuro per fare più denaro.

    D. Quindi?
    R. Quindi torniamo al perché i lavoratori dovrebbero essere comproprietari delle imprese per cui lavorano: in quel caso, ragionevolmente potrebbero pensare di rendere alcune mansioni più tollerabili con la tecnologia, ma senza perdere il contatto umano.



    D. Le aziende attuali non possono rendere la vita migliore ai loro impiegati?
    R. Fare sempre più soldi e preoccuparsi della vita di tutti sono due condizioni non compatibili.

    D. Crede che i cittadini siano sufficientemente informati e consapevoli per ragionare sui cambiamenti possibili?
    R. Penso che la vita sia piena di distrazioni e anche questo fa il gioco di chi vuole che le cose restino uguali: più c’è rumore di fondo, meno riusciamo a concentrarci sul cambiamento.

    ..............................

    D. A proposito di Stato, capitale e sinistra, 20 anni fa una generazione scese in strada contro la globalizzazione. Le loro ragioni vennero ignorate, o screditate. Oggi persino il presidente americano contesta la globalizzazione.
    R. Le loro ragioni vennero ignorate da chi era contro di loro, per definizione, e sostenute da chi ne condivideva gli interessi. Molta stampa è posseduta da ricchi che non pagano le tasse, molte tivù sono in mano a tycoon di destra. Se speriamo che i media sostengano - ora e allora - le ragioni della protesta, ci illudiamo.

    D. Eppure la popolarità di Corbyn cresce. È esente dal discredito?
    R. Tutt’altro. Corbyn ha una chance vera di vincere le prossime elezioni, ma più si avvicina al potere più ci sono trappole. Proveranno a screditarlo sempre più: è un meccanismo sempre uguale, si replica da 100 anni o più.


    www.lettera43.it/it/articoli/interv...ervista/218680/
     
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    La Globalizzazione secondo Dani Rodrik

    l' economista Turco di origine sefardita , docente di Haward , Dani Rodrik da anni pone il problema del rapporto tra democrazia degli stati nazionali e sviluppo della globalizzazione . La sua posizione è stato vista spesso come una semplice richiesta di maggiori poteri aglis tati nazionali

    https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016...l?uuid=ACVglP2C

    "nel suo La globalizzazione intelligente, Rodrik introduce il concetto di trilemma dell’economia mondiale: ossia il fatto che sia impossibile perseguire simultaneamente la democrazia, l’autodeterminazione nazionale e la globalizzazione economica. «Se vogliamo far progredire la globalizzazione dobbiamo rinunciare o allo Stato-nazione o alla democrazia politica - scrive Rodrik - . Se vogliamo difendere ed estendere la democrazia, dovremo scegliere fra lo Stato-nazione e l’integrazione economica internazionale. E se vogliamo conservare lo Stato-nazione e l’autodeterminazione dovremo scegliere fra potenziare la democrazia e potenziare la globalizzazione». "

    E veniva rimproverato di negare la necessità di una normativa internazionale




    Ma in un suo articolo apparso sul nr 1239 (fine gennaio 2018, pag 38 e segg ) di Internazionale specifica meglio il suo intendimento , senza rifiutare la necessità di normative internazionali chiede che la legittimiotà di protezione dal dumpoing sia estesa al dumping sociale .

    Ne riportiamo i brani salienti con evidenziata la parte suddetta


    Fino a poco tempo fa il dibattito sulla globalizzazione era considerato un argomento chiuso, sia dai partiti di sinistra sia da quelli di destra. Il discorso del leader politico britannico Tony Blair al congresso del Partito
    laburista del 2005, nel Regno Unito, dà un’idea del clima che si respirava. “Qualcuno dice che dobbiamo mettere in discussione la globalizzazione”, dichiarò Blair, che all’epoca era premier. “Se è così, tanto vale mettere in discussione il fatto che dopo l’estate c’è l’autunno”. La globalizzazione poteva provocare traumi e disagi e lasciare qualcuno indietro, ma non importava: bisognava semplicemente prenderne atto. Il nostro “è un mondo che sta cambiando”, continuò Blair, “pieno di opportunità, ma solo per chi è veloce ad adattarsi” e “lento a lamentarsi”

    Nessun politico capace, oggi, si azzarderebbe a dire agli elettori di non lamentarsi.
    I vari Blair e Clinton si stanno chiedendo com’è possibile che un processo fino a poco tempo fa considerato inesorabile abbia innestato la retromarcia. Il commercio ha smesso di crescere come prima e i flussi finanziari internazionali non si sono ancora ripresi dalla crisi scoppiata dieci anni fa.

    Inoltre, dopo anni di stallo dei negoziati sul commercio internazionale, un candidato nazionalista ha cavalcato l’onda populista ed è arrivato alla Casa Bianca, da dove sta rinnegando tutti gli sforzi multilateralisti dei suoi predecessori. Chi vent’anni fa festeggiava l’avvento dell’iperglobalizzazione non capirà mai cos’è andato storto se prima non ammetterà di non aver capito

    La globalizzazione era un dato di fatto. L’unico dubbio era se la società si sarebbe adattata alla concorrenza globale.
    Blair e soci erano così sicuri delle loro idee non solo perché il mondo stava andando come volevano, ma anche perché avevano un’argomentazione forte: il vantaggio comparato. Non era una tesi nuova, era vecchia di duecento anni. Però era di moda ed effettivamente aveva una sua logica: il commercio favorisce la specializzazione, e un paese che si specializza nelle cose che vanno bene sarebbe stato complessivamente meglio.
    Gli evangelisti della globalizzazione, però, hanno trascurato quel “complessivamente” e, soprattutto, hanno allargato il discorso dallo scambio di beni alla liberalizzazione della finanza.
    Sono passati senza battere ciglio dall’abbassamento delle barriere al confine, come i dazi o le quote sulle importazioni, a una serie di iniziative più invadenti per armonizzare le normative da entrambi i lati del confine – norme in materia di investimenti, standard di prodotto, brevetti e diritti d’autore – in cui è meno chiaro perché l’integrazione tra diversi paesi dovrebbe essere vantaggiosa per tutti.
    Non a caso i maggiori beneficiari della globalizzazione sono stati paesi che hanno aggirato le normative ufficiali e hanno deciso di fare a modo loro.
    La Cina e altri paesi asiatici hanno partecipato all’economia mondiale, ma alle loro condizioni: hanno seguito politiche commerciali e industriali proibite dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), hanno gestito in autonomia le loro monete e hanno mantenuto il controllo sui flussi internazionali dei capitali.
    In questo modo hanno registrato una fortissima crescita economica, strappando alla povertà centinaia di milioni di persone.
    Nelle economie industriali avanzate, invece, le regole della globalizzazione hanno favorito soprattutto le multinazionali e le élite professionali. Non è in discussione la buona fede dei sostenitori dell’iperglobalizzazione.
    Il problema è che hanno portato la loro tesi all’estremo e l’hanno distorta.
    L’inevitabile reazione dei loro concittadini che non sono stati affatto “lenti a lamentarsi” li ha colti alla sprovvista.
    Con buona pace di Blair, la globalizzazione è un processo reversibile.

    All’inizio, la liberalizzazione ha coinvolto soprattutto le economie relativamente avanzate, dove
    i salari e le condizioni di lavoro erano più o meno simili. I primi problemi sono sorti quando anche i paesi in via di sviluppo hanno cominciato a partecipare all’economia mondiale, perché i loro salari troppo bassi creavano tensioni nei paesi più sviluppati.
    …....
    E comunque, durante i negoziati le economie avanzate erano inizialmente riuscite a ottenere un regime speciale per settori particolarmente esposti, come il tessile e quello dell’abbigliamento.
    Secondo uno studio che analizza le conseguenze del Nafta sul mercato del lavoro, una minoranza non trascurabile dei lavoratori statunitensi ha subìto perdite consistenti. I più colpiti sono stati gli operai: dal 1990 al 2000 i lavoratori non diplomati delle zone più interessate dal Nafta hanno visto crescere il proprio salario di otto punti percentuali in meno rispetto ai colleghi di altre regioni.

    La crescita dei salari nei settori più protetti che hanno perso le loro tutele con il Nafta è diminuita di 17 punti percentuali rispetto ai settori che non erano protetti. E quali sono stati i vantaggi complessivi? Secondo le stime più aggiornate, il guadagno netto per l’economia statunitense è stato inferiore allo 0,1 per cento del pil. Se lo stesso capitale politico speso per un’iniziativa che ha portato disagi a tanti statunitensi, peraltro senza effetti apprezzabili sulla crescita, fosse stato investito in programmi industriali, di formazione o infrastrutturali per aumentare l’occupazione, forse Donald Trump non sarebbe diventato presidente.

    Ma c’è un’altra questione, più profonda, che rende particolarmente difficile il rapporto tra liberalizzazione del commercio e lavoro: il commercio internazionale si basa su meccanismi competitivi che all’interno dei singoli paesi sono vietati perché violano alcune norme condivise. Un conto è perdere il lavoro a vantaggio di qualcuno che gioca secondo le stesse regole, un altro è ritrovarsi disoccupati perché un’azienda sfrutta norme permissive in tema di lavoro, ambiente o sicurezza in un altro paese. Questo tipo di concorrenza è in grado di aggirare normative importanti, anche in materia fiscale.

    Gli evangelisti dell’iperglobalizzazione hanno ignorato questi problemi e hanno raddoppiato la posta, promuovendo accordi commerciali che in realtà non avevano più niente a che fare con il commercio. La loro attenzione si è spostata su aspetti regolamentari

    ….....

    Forse l’errore più grave degli ultraliberisti è stato favorire la globalizzazione finanziaria.
    …...
    Lo scetticismo riguarda in gran parte i flussi finanziari a breve termine, particolarmente soggetti a crisi ed eccessi, mentre i flussi a lungo termine e gli investimenti diretti esteri in generale sono ancora visti di
    buon occhio, perché tendenzialmente sono più stabili e utili alla crescita. Ma anche qui non mancano i problemi, perché ci sono conseguenze sulla fiscalità e sul potere di negoziazione che penalizzano i lavoratori.
    Perché? Perché se i salari sono almeno in parte il frutto della contrattazione, le aziende possono far valere una minaccia credibile: o accettate salari più bassi o ce ne andiamo da un’altra parte. Ci sono diversi
    elementi per affermare che il declino della quota di reddito nazionale prodotta dal lavoro è collegato alla minaccia di spostare la produzione all’estero. Inoltre, quando il capitale è molto più mobile del lavoro, il lavoro diventa più esposto agli shock locali. I lavoratori meno istruiti e qualificati, quelli che hanno più difficoltà a spostarsi da un paese all’altro, sono in genere i più colpiti.
    Quando il capitale diventa mobile, diventa anche più difficile tassarlo. I governi sono costretti sempre più spesso a finanziarsi tassando i consumi e il lavoro. Non a caso, le aliquote delle imposte sul reddito delle società sono scese bruscamente in quasi tutte le economie avanzate in dalla

    …....

    Esiste però un altro scenario allarmante, e purtroppo molto più probabile: le élite non riusciranno a rispondere adeguatamente ai contraccolpi della globalizzazione, e questo alimenterà sempre più il populismo e il protezionismo

    Fortunatamente c’è un’altra via di uscita, molto più incoraggiante: quella di un riequilibrio democratico. È possibile uscire all’iperglobalizzazione restituendo più autonomia ai singoli paesi, con l’obiettivo di creare un sistema interno più inclusivo

    Cosa bisogna fare? Innanzitutto sviluppare e applicare il concetto di “commercio equo”. È un concetto che scalda poco il cuore agli economisti, che spesso lo vedono come una forma mascherata di protezionismo.

    Ma il commercio equo è già codificato dalle normative commerciali sotto forma di dazi compensativi e contro il dumping.
    Un governo può farli scattare per rispondere ai paesi che abbassano i prezzi delle esportazioni in modo aggressivo o le sovvenzionano per conquistare quote di mercato.
    Certo, queste cosiddette “misure di difesa commerciale” inibiscono alcuni scambi, ma costituiscono anche una sorta di “pedaggio” politico per la costruzione di un sistema commerciale aperto.
    Se in sede di negoziati commerciali queste misure fossero state estese al cosiddetto dumping sociale, cioè la concorrenza basata sullo smantellamento delle tutele del lavoro, oggi forse il sistema mondiale degli scambi commerciali avrebbe il sostegno popolare che tanto gli manca
    .

    Purtroppo quest’idea non è mai passata per la testa ai fautori dell’iperglobalizzazione. Per loro il vantaggio comparato era il vantaggio comparato, a prescindere dal fatto che fosse il frutto delle risorse di un paese o dei suoi apparati repressivi. Oggi Trump, la Brexit e il
    A cominciare dagli accordi commerciali, bisogna dare maggiore legittimazione all’economia mondiale agli occhi dell’opinione pubblica, invece di fare gli interessi delle multinazionali.
    La cosa fondamentale da capire è che la globalizzazione è – ed è sempre stata – il frutto dell’iniziativa dell’essere umano: può essere plasmata e riplasmata, nel bene e nel male. Il grande problema del discorso di Blair nel 2005 è stato affermare che la globalizzazione fosse sostanzialmente una sola cosa, immutabile, anche nel modo in cui la società doveva recepirla, un vento del cambiamento con cui non si poteva trattare o discutere. Le élite politiche, finanziarie e tecnocratiche sono ancora vittime di questo
    equivoco. Eppure non c’era niente di prestabilito nella corsa verso l’iperglobalizzazione.
    La verità è che la globalizzazione è plasmata in modo consapevole dalle norme che le autorità decidono di mettere in atto: i gruppi che privilegiano, i settori su cui scelgono di intervenire e quelli che invece scelgono di lasciare stare, i mercati che aprono alla concorrenza internazionale. È possibile ricostruire la globalizzazione nell’interesse della società, a patto di fare le scelte giuste. Per esempio, si può stabilire
    che il coordinamento delle norme fiscali ha la precedenza sulla tutela dei brevetti, che gli standard sul lavoro vengono prima dei tribunali speciali per gli investitori.
    Se le regole fossero queste, l’economia mondiale sarebbe diversa. La distribuzione dei guadagni e delle perdite tra un paese e l’altro e all’interno dei singoli paesi cambierebbe drasticamente. Non avremmo meno globalizzazione: anzi, una maggiore legittimazione dei mercati internazionali probabilmente
    stimolerebbe il commercio e gli investimenti a livello mondiale. Sarebbe una globalizzazione più sostenibile, perché godrebbe di un maggior consenso. Ma sarebbe una globalizzazione molto diversa da
    quella che abbiamo ora

    Dani Rodrik è un economista turco che
    insegna all’università di Harvard
     
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4 replies since 12/6/2016, 15:43   128 views
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